Il campo profughi di Al Hol nel nord-est della Siria, provincia di Hasaka, viene ormai comunemente descritto come il nuovo “rifugio sicuro” dell’ISIS. Nel campo, infatti, l’esperienza del sedicente “Stato Islamico” prosegue senza interruzioni, sia sotto il profilo dell’estremismo ideologico e del proselitismo, che delle modalità di organizzazione della vita sociale, sempre caratterizzate da violenza e morte. Il tutto in un quadro reso ancor più drammatico da una cronica emergenza umanitaria, che non conosce sollievo malgrado l’impegno di organizzazioni internazionali, come ONU e Croce Rossa.

FOCOLAIO DELL’ISIS
Sebbene risulti particolarmente difficile fornire dati certi sulla popolazione di Al Hol, le statistiche sin qui elaborate confermano la valutazione generalmente condivisa sulla presenza diffusa dell’ISIS all’interno del campo.
Su un totale di quasi 70 mila persone, provenienti da Baghuz, l’ultima roccaforte dello “Stato Islamico” a cadere nel 2018 in seguito all’avanzata delle Syrian Democratic Forces (SDF), a maggioranza curda, i militanti e simpatizzanti dell’ISIS sarebbero ben 45 mila. Ad Hol, pertanto, i profughi civili sono costretti a proseguire la loro tormentata co-esistenza con i loro aguzzini sotto la gestione delle SDF e degli Asayish, i poliziotti dell’autorità di autogoverno curda.
L’ufficio dell’Alto Commissario dell’ONU per i diritti umani stima che i membri dei nuclei familiari legati ai “foreign fighters” sono 11 mila, il 27 per cento donne e il 67 per cento bambini al di sotto di 12 anni. Mentre fonti curde delle SDF parlano di 30 mila donne e relativi figli legati all’ISIS, di cui 12 mila di origine straniera e, tra questi, 8 mila minori da oltre 60 paesi diversi (manca un censimento ufficiale e i residenti mentono spesso sulla propria nazionalità, ma la varietà delle provenienze è assicurata dalle lingue parlate, tra cui arabo, inglese, francese, tedesco, tagico, russo, turco e tante altre ancora).
Stando all’UNICEF, donne e minori costituiscono il 90 per cento degli abitanti del campo. I minori sono 50 mila (20 mila siriani e 20 mila sotto i 5 anni di età, nati dopo l’espansione dell’ISIS in Siria e Iraq), un numero “sproporzionato” dei quali risulta non accompagnato o separato dai propri genitori, trattandosi di figli di combattenti rimasti uccisi o imprigionati.
Tuttavia, le SDF e gli Asayish sono in grado di provvedere solo a un livello minimo di sicurezza, insufficiente a garantire l’ordine interno e a rendere impenetrabile il perimetro della gigantesca struttura. Ciò ha favorito le condizioni per la diffusione dell’ideologia dell’ISIS e per l’arruolamento di nuovi membri e un nuovo coinvolgimento di quelli che avevano lasciato la battaglia.
Le SDF, a tal proposito, non hanno mai effettuato un monitoraggio dei militanti “pentiti” o che hanno deciso di deporre le armi, anche solo momentaneamente, sebbene quelli presenti ad Al Hol, molti stranieri e in incognito, siano numerosi e la loro identificazione ne permetterebbe l’impiego come risorse nell’anti-terrorismo, insieme al coinvolgimento in programmi di de-radicalizzazione, così da offrirgli un’occasione di reinserimento sociale.
Le risorse su cui invece l’ISIS punta maggiormente per l’indottrinamento e il reclutamento, facendo leva su un contesto favorevole alla propaganda estremista, sono i minori e le donne. Quest’ultime, con migliaia di militanti uomini detenuti nelle prigioni gestite dalle SDF (circa 6 mila: 5 mila siriani e iracheni, più mille stranieri), sono la punta di lancia del revival dello “Stato Islamico” in corso nel campo.

LE DONNE DELL’ISIS
Le donne dell’ISIS residenti ad Al Hol svolgono attività di reclutamento nei confronti di altre donne non estremiste e monitorano la presenza di militanti legati a gruppi rivali (in primis, i qaedisti di Huras Al Din). Inoltre, mantengono i contatti con esponenti dell’ISIS all’esterno, sia attraverso cellulari su cui ricevono informazioni e direttive da passare ai militanti uomini nel campo, che incontrandoli personalmente.
Sfruttando la possibilità di uscire per recarsi a un vicino mercato, le donne dell’ISIS hanno infatti potuto consegnare o ricevere denaro e prendere armi da condurre all’interno e nascondere nelle tende dove alloggiano, avvalendosi della copertura offerta dal burqa per passare inosservate ai controlli al momento del rientro. In diversi casi hanno invece optato per la fuga, riunendosi ai loro mariti o sodali ancora in libertà.
L’uscita da Al Hol è stata di conseguenza interdetta, ma le difficoltà incontrate dalle SDF e dagli Asayish nel sigillare i “confini” dell’agglomerato fa sì che l’attività di collegamento tra le donne e l’ISIS al di fuori di Al Hol prosegua tuttora.
La tensione con le forze curde, considerate acerrime nemiche quasi quanto il regime di Assad, è altissima. Il timore di essere uccise o di restare prigioniere a vita è assai diffuso, specie tra le donne con cittadinanza europea, alcune delle quali spingono per essere rimpatriate, sostenendo di essere disposte ad andare in carcere nei paesi di provenienza, di essersi pentite o di essere state ingannate quando si sono unite allo “Stato islamico”, sebbene sia difficile verificare la loro effettiva sincerità.
Tra queste, un numero considerevole è riuscito a scappare con il supporto di trafficanti, dopo aver eluso i controlli delle guardie o dopo averle corrotte con denaro. Negli ultimi mesi, una di loro è stata ritrovata in Spagna, altre sono riuscite a raggiungere Svezia e Finlandia via Turchia. Altre ancora non sono tornate a casa e sono ancora pericolosamente in libertà, come 13 donne di cittadinanza francese (inclusa Hayat Boumedienne, partner di Amedy Coulibaly, uno degli autori degli attacchi terroristici del gennaio 2015 a Parigi).
Al contempo, ad Al Hol vi sono donne che mantengono apertamente un atteggiamento aggressivo e di sfida. Cantano slogan pro-ISIS e non temono le SDF e gli Asayish, con cui incorrono spesso in incidenti e colluttazioni (guardie sono state picchiate e accoltellate).
Una serie di macabri omicidi è stato attribuito a un gruppo di tre donne, le cosiddette amiras, che hanno istituito segretamente corti shariatiche e una polizia religiosa denominata hisbah, ordinando l’esecuzione di donne e bambine (dai 9 ai 14 anni) per presunte violazioni della legge islamica, come quella di non indossare il velo. La cifra delle efferatezze compiute dalle amiras e dall’hisbah è offerta dalle fotografie rinvenute dalle SDF, che raffigurano il tronco gravemente decomposto di un corpo femminile arrotolato in un tappeto e il cadavere di una donna che giace sulla schiena con le mani legate da un panno, il viso incrostato di sangue e un buco triangolare sulla fronte causato dal palo di una tenda.
Le tre amiras vengono comunemente definite come “russe”, ma provengono da Cecenia, Dagestan e dalle altre repubbliche del Caucaso settentrionale inglobate nella Federazione Russa. Una di loro, Um Dauoud, è stata catturata e imprigionata, ma le altre due, insieme a una dozzina di “poliziotte” dell’hisbah, risultano ancora in libertà nella sezione del campo destinata agli stranieri.
Con un’accesa manifestazione, gruppi di donne hanno negato che le uccisioni fossero state organizzate dalle amiras o che avessero una motivazione religiosa. Um Dauoud è innocente, gridavano, “non ha fatto nulla” ed è stata imprigionata ingiustamente dai “curdi” malgrado abbia dei “figli”. L’hisbah non esiste, è un’invenzione delle SDF e degli Asayish, accusati a loro volta di aver commesso degli abusi nei confronti delle residenti di Al Hol e di aver sparato in una precedente protesta “pacifica”, uccidendo una donna e ferendone altre sette. Durante la manifestazione, le guardie sono state circondate ed alcune trascinate nelle tende per essere picchiate.
L’ostilità verso i “rapitori curdi” dà adito a teorie della cospirazione. Secondo una delle tante voci in circolazione, una donna che ha cercato di fuggire sarebbe saltata su una mina collocata apposta dagli Asayish nei pressi di un passaggio utilizzato per uscire clandestinamente dal campo. Ancora, le guardie si ubriacano regolarmente e sparano ai bambini. Inoltre, “vogliono che i bambini muoiano per poter raccogliere e vendere i loro organi”, mentre “se dipendesse dai curdi ci ucciderebbero perché siamo nemici”.
Il clima instaurato dalle amiras e dall’hisbah ad Al Hol rispecchia fedelmente quello in vigore nello “Stato Islamico”, dove terrore e violenza venivano impiegati come strumenti di governo, soprattutto per eliminare il dissenso interno. Nel “regno” delle donne dell’ISIS, ogni obiezione è dunque proibita, ma si sono verificati casi in cui delle donne abbiano confessato la propria inquietudine e sofferenza a giornalisti e ricercatori recatisi presso il campo per studi e inchieste.

Stando a queste importanti testimonianze, ad Hol “ci sono persone molto pericolose”, in particolare un “oscuro gruppo” di ideologi estremisti dell’ISIS, che “opera in segreto”. Circa la metà dei prigionieri stranieri vorrebbe essere rimpatriata per reintegrarsi nelle rispettive società, mentre il resto non potrà mai essere riabilitato. Le donne più estremiste e pericolose sono le “russe”, che “combattono con i pugni, non con la bocca”.
È stata la loro condotta a provocare la chiusura del campo, impedendo al resto dei residenti di uscire anche se solo per un tempo limitato. Sono causa di sofferenza per tutti e indottrinano i rispettivi figli a “diventare i terroristi dell’ISIS di domani”. I bambini sono sottoposti ad un autentico “lavaggio del cervello” ed è su incitamento delle loro stesse madri che tirano sassi alle SDF e agli Asayish.

I “FIGLI” DI AL HOL
Quale potrà essere il futuro di bambini che nascono e crescono in un contesto come quello del campo di Al Hol? Terra, polvere e sporcizia sotto il sole cocente, privazioni e mancanza di ogni elemento basilare per un corretto sviluppo umano, insieme all’unica educazione disponibile, quella all’estremismo dell’ISIS: per i “figli” di Al Hol la via della radicalizzazione è segnata.
Il rimpatrio dei “foreign fighters”, e delle donne in particolare, è pertanto funzionale non solo alla riduzione del bacino di reclutamento di “adulti” ad opera del terrorismo, ma soprattutto a sottrarre i minori a un destino che sembra già scritto. Alcune madri, chiedono il rimpatrio non per se stesse, ma affinché una vera opportunità di reinserimento sociale venga offerta ai loro bambini, che non hanno alcuna responsabilità dei crimini e dei misfatti commessi dai genitori.

D’altro canto, i rimpatri costituiscono una soluzione limitata e parziale. Migliaia di “foreign fighters”, inclusi nuclei familiari, sono già tornati nella Federazione Russa e nel Caucaso settentrionale, mentre nell’ordine delle centinaia in Uzbekistan, Kazakhstan, Turchia e Kosovo. Anche Europa e Stati Uniti, in misura molto minore, stanno procedendo ai rimpatri, valutando caso per caso. Ma i bambini di origine siriana resteranno ad Hol e in altri campi profughi dalle dimensioni più piccole, destinati con ogni probabilità allo status di rifugiati interni ad vitam (una problematica del tutto speculare si sta verificando in Iraq).
Il miglioramento delle condizioni umanitarie nelle strutture nelle quali sono collocati è divenuta così un’esigenza ormai ineludibile, che va ad intrecciarsi con gli aspetti legati alla sicurezza. Il vice segretario generale dell’ONU, Vladimir Voronkov, a capo dell’ufficio anti-terrorismo, ha parlato di 700 persone morte ad Al Hol e al campo di Al Roj per mancanza di cibo e medicine. Procedere con i rimpatri nel maggior numero possibile serve quindi a ridurre il sovraffollamento e la caoticità dell’ambiente, contribuendo a una più efficace distribuzione degli aiuti e dei servizi da parte delle varie agenzie umanitarie.
La comunità internazionale è comunque chiamata a rafforzare il proprio impegno. Fortunatamente, l’emergenza provocata dal COVID-19 ha colpito finora la Siria nord-orientale in maniera solo marginale, ma se l’epidemia fosse esplosa la situazione nel campo di Al Hol avrebbe certamente raggiunto il punto di rottura a causa della densità della popolazione (37.570 persone per chilometro quadrato) e della mancanza di strutture e strumentazioni mediche adeguate. Dal momento che il rischio della diffusione del contagio è tutt’altro che svanito, predisporre Al Hol ad affrontare adeguatamente il Coronavirus nel prossimo futuro, consentirebbe anche un avanzamento generale della vita nel campo sotto il profilo sanitario e della salute.
È necessario, inoltre, moltiplicare gli sforzi sul versante sociale e culturale, a beneficio della fascia giovanile e dei minori. Per loro, va costruita ad Hol una nuova esistenza, con percorsi formativi, professionali e personali che non concedano spazi nei quali l’ISIS e la sua ideologia perversa possano incunearsi per arruolare nuovi militanti da porre al servizio della causa distruttiva del terrorismo.
Nel quadro di un approccio olistico, la comunità internazionale è chiamata contemporaneamente a rafforzare le capacità di polizia delle SDF e degli Asayish, con la fornitura di sistemi e strumenti più avanzati per il mantenimento della sicurezza nel campo, rendendolo impenetrabile dall’esterno e stroncando ogni attività dell’ISIS all’interno.