IL RAMAḌĀN NON È UGUALE PER TUTTI I MUSULMANI

Passato il Covid resta un’altra pandemia globale da debellare: quella contro i musulmani. Una pandemia fatta di stragi, persecuzioni, e vessazioni, divenute pane quotidiano sui media, fredde notizie di cronaca a cui siamo ormai assuefatti, a un punto tale che chi non ne è direttamente interessato, anche se musulmano o musulmana, non ci fa più caso o quasi. Così facendo, dimentichiamo però che se Allāh Ta’alā ci ha unito tutti nella Ummah (Sūrat āl-ʿImrān, 3:103), la condivisione del dolore e delle sofferenze di tanti fratelli e sorelle è un dovere che s’impone a ogni musulmano, per mantenere vivo il senso autentico della comunità dei credenti insieme alla sua compattezza, specie nel corso del “migliore dei mesi” appena cominciato: il Ramaḍān.

I MUSULMANI UIGURI VITTIME DEL “DRAGONE” CINESE
Nello Xinjang cinese, anzi Turkestan orientale per meglio dire, avanzano la pulizia etnica e il genocidio nei campi di concentramento in cui sono rinchiusi più di 3 milioni di musulmani Uiguri: 2 milioni in quelli che vengono beffardamente definiti “campi di rieducazione”, 1 milione nei “centri anti-estremismo”.

Nei “campi di ri-educazione”, il regime del partito nazi-fascio-comunista di Pechino sta mettendo in atto un’operazione di lavaggio del cervello senza precedenti, volta a trasformare i musulmani in schiavi sottomessi non all’Altissimo, ma al dominio dell’etnia maggioritaria al potere in Cina: la han. Da altre aree del paese, nel corso degli ultimi 20 anni gli han si sono trasferiti in massa nel Turkestan orientale allo scopo di colonizzarlo, assoggettando la maggioranza musulmana uigura per sfruttarla nei lavori agricoli e nelle fabbriche fino all’ultimo respiro. Ecco perché bisogna “ri-educarla”, facendo dimenticare agli Uighuri di essere musulmani, di recitare la Sūrat al-Khaf ogni venerdì e di celebrare il Ramaḍān, per convertirli in bestie da soma senza mente e senz’anima, capaci soltanto di obbedire agli ordini dei padroni cinesi.

Nei “centri anti-estremismo”, sono invece rinchiusi gli Uiguri che hanno intrapreso la lotta armata per liberare il Turkestan orientale dalla dittatura cinese, gli oppositori politici e chiunque abbia svolto attività di contestazione. Si tratta di una fase antecedente a quella del lavaggio del cervello, naturalmente per chi riesce a sopravvivere alle torture e alle atrocità commesse dagli aguzzini del regime, frequenti anche come metodo didattico nei “campi di ri-educazione”.

Gli 8 milioni di musulmani Uiguri ancora in “libertà”, vivono nella repressione più assoluta e sanno che da un momento all’altro può giungere il proprio turno nei luoghi dell’orrore dove si consuma shaytanicamente la de-islamizzazione della Ummah locale. Ma l’Islām fa così paura? Evidentemente sì, e non solo al regime del partito nazi-fascio-comunista di Pechino. Basta guardare a quel che accade nei paesi che si trovano un po’ più giù sulla mappa.

LA GUERRA DELL’HINDUTVA AI MUSULMANI INDIANI
In India, la guerra ai musulmani da parte dei politeisti militanti dell’Hindutva è fatta non semplicemente di repressione in senso stretto, come quella attuata nel Kashmir per intenderci. Il governo Modi non ha la forza di adottare lo stesso metodo negli altri stati che compongono la federazione e sta quindi ricorrendo ai mezzi più squallidi e disonesti nel tentativo di arginare l’espansione della comunità musulmana indiana, a cui continua ad aderire un numero in costante crescita di “reverted”, principalmente induisti ma anche cristiani, sikh, giainisti e appartenenti alle restanti forme d’idolatria e paganesimo diffuse nel subcontinente.

Quando Allāh Ta’alā guida sulla Retta Via (Ṣirāṭ al-Mustaqīm), ogni scusa è buona per colpire l’Islām, specie nei suoi organi vitali, ed è stato così per l’abolizione dell’ḥijāb nelle scuole del Karnataka, come per la legge che ostacola i matrimoni “misti” adottata sempre nel Karnataka e nel Kerala. Inoltre, è in corso una massiccia campagna di esclusione dei musulmani nel mondo del lavoro, sia nel settore pubblico che privato. Per non parlare della disinformazione dilagante sui media, che mira a screditare i musulmani infangandoli per essere colpevoli di ogni genere di crimine o nefandezza (furti, omicidi, stupri, conversioni forzate), con notizie inventate di sana pianta o distorte per l’occasione.

L’odio e l’incitamento dai telefonini si trasferiscono nelle strade, che vedono i militanti dell’Hindutva aggredire e picchiare brutalmente i musulmani, comprese donne, anziani e bambini, nonché bruciare e danneggiare moschee, altri luoghi di aggregazione sociale, scuole e abitazioni. Come se non bastasse, la propaganda di gruppi terroristici come l’ISIS e di falsi dottori della legge come Zakir Naik, insieme alle influenze nefaste del vicino Pakistan, culla dello “sviamento” religioso a fini politici, non fa altro che fornire al governo Modi e all’Hindutva nuove scusanti e giustificazioni per prendere di mira i musulmani. A quando l’abolizione del Ramaḍān?

I MUSULMANI ROHINGYA: PERSEGUITATI DAI BUDDISTI, OSPITI NON GRADITI IN BANGLADESH
Se ci spostiamo a sud-est dell’India, ecco il dramma immane dei musulmani Rohingya. Sono circa un milione quelli che si sono rifugiati in Bangladesh, dopo essere stati costretti a scappare dallo stato del Rakhine a causa della pulizia etnica e del genocidio perpetrati dal regime militare del Myanmar, sulla spinta dell’estremismo etnico-religioso della maggioranza buddista. Che Ramaḍān sarà per loro, nei campi di Kutupalong (il più grande del mondo) e di Nayapara? Mentre sono 150 mila i musulmani Rohingya dispersi tuttora in territorio birmano, che vivono in accampamenti e tende di fortuna. A casa non possono tornare, e non solo perché la ritroverebbero distrutta o occupata, ma perché avrebbero di fronte lo stesso contesto di apartheid e discriminazione che i musulmani Rohingya hanno sofferto per decenni e che oggi continuano a soffrire i circa 300 mila che sono rimasti nello stato di Rakhine, sopravvissuti alle violenze e ai soprusi, agli stupri sistematici e alle uccisioni indiscriminate, ma senza la possibilità di scappare da quell’incubo che è la realtà in cui vivono.

Lo scorso 5 marzo, un incendio ha distrutto 2.800 case a Balukhali, una sottosezione di Kutupalong, lasciando 15mila musulmani Rohingya senza abitazione. Non è il primo caso d’incendio che colpisce i campi profughi in Bangladesh. Nel marzo di due anni fa, sempre a Balukhali, un enorme incendio uccise almeno 15 persone e 50mila rimasero senza casa. Tra quella tragedia e quella che si è consumata più recentemente, sono stati ben 222 i casi d’incendio, di cui almeno 60 di natura dolosa accertata, la stessa dell’ultimo grave incidente. Gli investigatori hanno parlato di “sabotaggio pianificato”: chi sarà stato? I sospetti convergono su soggetti bangladesi riconducibili alle autorità, che in questo modo intendono mettere pressione sui musulmani Rohingya affinché lascino il paese, dopo avergli già tagliato cibo e assistenza.

Ecco allora i musulmani che se la prendono con altri musulmani, invece di mostrare la dovuta generosità e fratellanza, in quanto parte di un’unica Ummah. “Non è un credente quello il cui stomaco è pieno mentre il suo vicino ha fame”, ha lasciato detto il Profeta Muḥammad SAW (al-Ādab al-Mufrad, 112). Da questo punto di vista, come musulmani ordinari siamo (quasi) tutti in difetto o potremmo sicuramente fare qualcosa di più, ma quando la mancanza di solidarietà è degli stati, che peraltro si definiscono islamici, si tratta di un’“ipocrisia” istituzionalizzata che rende ben evidente la necessità di un ritorno per la Ummah ad avere governanti “ben guidati”.

LE DONNE AFGHANE DI NUOVO VITTIME DELL’“IGNORANZA” DEI TALEBANI
A tal proposito, restando ancora in Asia ma avvicinandoci allo Shām e alla regione araba, non si può fare a meno di nominare i “fratelli” Talebani in Afghanistan, che di vessazioni nei confronti degli stessi musulmani se ne intendono: chiedere alle donne a cui, tra le altre misure di segregazione e isolamento, è stato completamente negato il diritto allo studio, in piena contraddizione sia della Sharīʿa che di ciò che l’Islām è stato nella storia. Tutti i credenti, a prescindere dal sesso, sono infatti chiamati ad approfondire la propria educazione e conoscenza come dovere religioso. “Leggi!” (Sūrat al-’Alaq, 96:1) non è certo un comandamento che il Nobile Qurʾān rivolge esclusivamente ai “maschi”. Inoltre, sono più di 2mila gli Ḥadīth della Sunnah del Profeta Muḥammad SAW che si esprimono chiaramente sulla centralità dell’educazione per il Dīn, senza fare discriminazioni.

In battaglia non si discutono, ma certamente qualche ora di religione in più sui banchi di scuola come “studenti” gli sarebbe stata utile per fare meno male agli altri musulmani, donne in particolare. Comincino allora fin da adesso a ripassare: “Cercare la conoscenza è un dovere per ogni musulmano, e colui che impartisce la conoscenza a coloro che non la meritano, è come chi mette una collana di gioielli, perle e oro intorno al collo dei porci” (Sunan Ibn Mājah, 224). Il “collo” menzionato dal Profeta Muḥammad SAW si riferisce guardo caso proprio a quello dei Talebani?

Se hanno compiuto l’impresa di liberare l’Afghanistan dall’occupazione degli infedeli occidentali per stabilire un regime ancora più “malato” di quello precedente, non era meglio quando si stava peggio? Ci auguriamo che, in questo mese di Ramaḍān, i Talebani non proibiscano alle donne di mangiare per l’Ifṭār dopo il tramonto e in occasione di Aid al-Fiṭr.

LE GRANDI TRAGEDIE DELLO SHĀM E DELLA REGIONE ARABA
L’attualità ci riporta inevitabilmente nello Shām. Nelle aree liberate della Siria sotto controllo islamico, straordinarie e commoventi sono state il 15 marzo le celebrazioni per il dodicesimo anniversario della Rivoluzione: segno che i musulmani non intendono farsi piegare dagli attacchi del regime di Assad e dei suoi alleati russi e iraniani. Allo stesso tempo, inquantificabile è la catastrofe che si è abbattuta nelle zone terremotate al confine tra il nord della Siria e il sud della Turchia. Una catastrofe che va al di là del numero dei morti e dei feriti, delle abitazioni e delle infrastrutture distrutte, dei danni materiali provocati. Solo Allāh Ta’alā sa quanto dolore e sofferenza ci siano oggi nei cuori dei sopravvissuti, che hanno già dovuto patire molto a causa dei soprusi del regime di Assad e della guerra, e si trovano adesso a dover dare una prova di fede (Īmān) ancora più grande. Che questo Ramaḍān serva a stringerli sempre di più al nostro Signore, l’unica vera fonte di forza, speranza e salvezza.

Lo stesso si può dire dei fratelli e delle sorelle nello Yemen. Un paese stupendo, ancora autenticamente islamico e arabo, a differenza delle ricchissime monarchie gas-petrolifere della Penisola, rimasto travolto nella diatriba principale che da secoli tiene la Ummah divisa, quella tra sunniti e sciiti. Il risultato dell’equazione è di 20 mila vittime innocenti, distruzioni e una carestia tra le più gravi mai verificatesi in tempi recenti. Il tutto mentre gli “sviati” di al-Qāʿida continuano a regnare indisturbati su una porzione di territorio nel cuore del paese.

La tristezza e la rabbia salgono ancora più in alto verso il cielo, pensando ai decenni di occupazione della Palestina e di al-Qūds da parte del regime sionista israeliano, con il benestare della cosiddetta “comunità internazionale”. L’indomita Resistenza dei palestinesi contro l’ingiustizia delle ingiustizie va avanti di generazione in generazione, senza arrendersi mai. Il mese di Ramaḍān vissuto e celebrato ad al-Qūds incarna forse più che in altri luoghi del Dār al-Islām la dimensione collettiva e sociale dell’essere musulmani: milioni di credenti, fratelli e sorelle, tutti uniti nella Ummah per pregare e portare lode al Signore nella Moschea di al-Aqṣā, riaffermando la propria aderenza al Tawḥīd sulla scia del Profeta ʾIbrāhīm AS, sotto la cupola d’oro dell’al-Haram al-Sharīf. I sionisti, guidati da invidia e gelosia, questo non riusciranno mai a sottometterlo.

E IL NOSTRO RAMADĀN?
Questo è il punto di vista di un fratello nato, vissuto e tornato all’Islām nel Dār al-Ḥarb italiano ed europeo. Non sarebbe giusto non ammettere che qui la situazione per i musulmani è di gran lunga migliore che altrove, com’è evidente da quanto descritto finora, sia dal punto di vista della sicurezza che economico. Altrimenti, non ci sarebbe quel gran numero di fratelli e sorelle che dall’Africa, come dalle aree di cui sopra, cercano di sbarcare sulle coste italiane a rischio della vita. Poi, anche la libertà d’invitare all’Islām con la Daʿwa non ci manca affatto e il Ramaḍān è proprio un’occasione importante di condivisione con la maggioranza non-musulmana di quanto sia “benefica” la conoscenza della (nostra) Religione.

D’altro canto, siamo anche consapevoli che la situazione nel prossimo futuro potrebbe peggiorare. I campanelli d’allarme non mancano. Le offese, le demonizzazioni e gli incidenti di matrice “islamofoba” sono in ascesa, e la ricorrenza del massacro di Christchurch in Nuova Zelanda, avvenuto 4 anni fa (51 morti e altrettanti feriti), è una prospettiva che potrebbe concretizzarsi anche nel quadrante del Dār al-Ḥarb in cui ci troviamo, come reazione alla conquista naturale dei cuori e delle menti da parte dell’Islām. Inoltre, la sfida della jāhiliyya che ci circonda si fa sempre più incalzante e rischia di contaminare anche la Ummah, “sviando” soprattutto le nuove generazioni.

Abbiamo anche noi i nostri problemi come musulmani, insomma, che s’intersecano con le incombenze e le prove quotidiane. Guai però ad essere autoreferenziali, dimenticandoci dei fratelli e delle sorelle che hanno una vita decisamente più dura della nostra. Pertanto, rendiamo questo Ramaḍān dell’anno 1444 ancora più speciale, facendo uno “sforzo” (Jihād) per ricordarci di loro, dedicandogli i nostri pensieri e le nostre riflessioni, le nostre preghiere e invocazioni. Non importa se a distanza, basta che siamo sinceri. Allāh SWT, il Signore dei Mondi, lo apprezzerà.

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